Sintomi dell'Attacco di panico:

L’Attacco di Panico consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti (DSM 5, 2014).

Potresti aver vissuto un Attacco di Panico, se hai sperimentato almeno quattro dei seguenti sintomi:

 

  • palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia
  • sudorazione
  • tremori
  • sensazione di soffocamento
  • dolore o fastidio al petto
  • nausea o disturbi addominali
  • sensazioni di vertigine, instabilità, di “testa leggera” o di svenimento
  • brividi o vampate di calore
  • sensazioni di torpore o formicolio
  • sensazione di distacco dalla realtà o da se stessi
  • paura di perdere il controllo o di impazzire
  • paura di morire


La caratteristica fondamentale dell’attacco di panico è la sensazione di perdere il controllo del proprio corpo temendo di morire o di impazzire.

In periodi vissuti in condizioni di costante ansia e stress emotivo, ci ritroviamo ad affrontare una situazione esistenziale caratterizzata da senso di costrizione (fisico o emotivo) e poco controllo della situazione stessa che possono portare allo sviluppo di un vero e proprio attacco di panico.

Un consiglio sulla gestione immediata di un attacco di panico è quello di considerarlo come un auto-inganno da parte del nostro corpo.

La tachicardia infatti non è causata da un deficit cardiaco, il timore di soffocare non deriva da una crisi polmonare e così via.

Non assecondare tali “falsi bisogni” ci permette quindi di diminuirne subito l’intensità e la durata. Può essere utile normalizzare il respiro, non attraverso respiri profondi ma inspirando ed espirando lentamente, introducendo poca aria per volta, e riprendere gradualmente l’attività che stavamo svolgendo.

La psicoterapia rimane lo strumento più indicato per la risoluzione degli attacchi di panico (molto spesso bastano poche sedute). Il lavoro terapeutico, infatti, è basato sulla riappropriazione del senso e del contesto del proprio malessere che in tali situazioni ci sfugge creando una sorta di “frattura identitaria” alla base del circolo vizioso che innesca e alimenta il panico.

Fobie &

Disturbi sessuali

La sessualità è un aspetto fondamentale della vita delle persone ed influenza molto spesso il loro benessere. Ognuno è fatto a modo proprio per cui non c’è un modo giusto o sbagliato di viverla, ma talvolta può capitare che si instaurino circoli viziosi (dovuti ad esempio ad ansie, disagi con il partner o precedenti esperienze negative) che impediscono all’individuo di godere appieno della propria vita sessuale.
Fortunatamente queste difficoltà possono essere affrontate e risolte grazie all’aiuto di un professionista della salute sessuale.

Problematiche affrontate:

  • eiaculazione ritardata
  • disturbo erettile
  • disturbo dell’orgasmo femminile
  • disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile
  • disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione
  • disturbo del desiderio sessuale ipoattivo maschile
  • eiaculazione precoce
  • disfunzione sessuale indotte da sostanze/farmaci
  • dipendenza affettiva
  • traumi e abusi

 

Il mio obiettivo è quello di far raggiungere il pieno benessere psicologico e sessuale alla persona, attraverso le tecniche psicologiche e sessuologiche più efficaci secondo le evidenze scientifiche.

Quando è presente un problema di coppia che dura da molto tempo o che mette a rischio la relazione, i vari tentativi dei partner di risolvere le cose potrebbero non bastare.

I problemi esistenti tendono a trasformarsi in dinamiche ripetitive che alimentano le incomprensioni, creando una sorta di circolo vizioso. Prendere consapevolezza del fatto che la vita di coppia è complessa e possono essere presenti delle difficoltà, è il primo passo importante verso il cambiamento.


Problemi di coppia

Seguendo il DSM 5 (2014), le ossessioni sono caratterizzate da:


  • pensieri, impulsi o immagini ricorrenti, vissuti come intrusivi e indesiderati, e che causano ansia e disagio marcati;
  • tentativi di ignorare o sopprimere tali pensieri, con altri pensieri o azioni.

 

Le conseguenti Compulsioni sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali che il soggetto si sente obbligato a mettere in atto. Tali comportamenti o azioni mentali sono rivolti a prevenire o ridurre l’ansia, ma non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare.

Esistono altre psicopatologie correlate al Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Tra le più diffuse oggi troviamo:


  • Disturbo di Dismorfismo Corporeo, cioè una patologica preoccupazione per uno o più difetti o imperfezioni percepiti nell’aspetto fisico, che non sono osservabili o appaiono agli altri in modo lieve. L’individuo mette in atto comportamenti ripetitivi (es. guardarsi allo specchio) o azioni mentali (es. confrontare il proprio aspetto con quello degli altri).
  • Disturbo da Accumulo, ovvero la persistente difficoltà di gettare via o di separarsi dai propri beni, a prescindere dal loro valore reale. Ciò produce un accumulo che congestiona e ingombra gli spazi vitali e ne compromette l’uso previsto.
  • Tricotillomania, cioè il ricorrente strapparsi capelli o peli, che porta alla perdita degli stessi e il vano tentativo di ridurre questo comportamento.
  • Disturbo da escoriazione, che consiste nello stuzzicamento continuo della pelle arrivando a crearsi vere e proprie escoriazioni.

L’esordio di un sintomo ossessivo, per quanto possa essere vissuto dalla persona come ascrivibile ad un preciso momento di vita, è sempre da inserirsi all’interno di una storia di vita e ad un modo di fare esperienza che sedimenta, gradualmente, nel tempo.

Quante volte ti è capitato di sentirti inadeguato e rimuginare, analizzando meticolosamente ogni singolo dettaglio del tuo operato, dopo uno sguardo torvo da parte del tuo datore di lavoro? Quante volte ti sei messo in discussione a seguito di un voto basso ricevuto ad un esame nonostante avessi studiato in modo molto accurato tutto il materiale? Quante volte ti è capitato di incontrare una persona affascinante e sentirti in colpa nei confronti del tuo partner, o chiederti se veramente provi sentimenti sinceri nei confronti del tuo partner, visto che trovi attraente un’altra persona? Quante volte hai deciso di non gettare un oggetto perché avrebbe forse potuto tornarti utile in futuro o perché, perdendolo, ti sarebbe sembrato di perdere il legame che c’è tra te e il ricordo connesso a quell’oggetto?

Se ti è capitato di sperimentare queste o simili situazioni ripetutamente, forse tendi a definire te stesso a partire da un senso di aderenza tra il tuo comportamento e un sistema di regole.

Tuttavia, possono presentarsi situazioni in cui ti ritrovi all’interno di un contesto in cui il tuo sistema di riferimento viene messo in dubbio. In tali situazioni, si ha la sensazione di non riconoscere più se stessi nell’esperienza in questione.

Lo sviluppo dei sintomi ossessivi non è altro che il tentativo (disfunzionale) di cercare una certa stabilità quando avvertiamo di averla persa.

Il lavoro terapeutico, in questo caso, si basa in primis sulla comprensione del senso che sta dietro ai sintomi riportati. Solo attraverso questa infatti è possibile arrivare a percepire la condizione come modificabile sentendosi un costruttore attivo in grado di impostare un cambiamento. Inutile risulterebbe invece concentrarsi esclusivamente sul sintomo cercando di combatterlo ed eliminarlo. In secondo luogo il lavoro si avvale del diario giornaliero, volto a monitorare la rigidità della routine quotidiana, e dei compiti esperienziali assegnati, di volta in volta, dal terapeuta.

I due principali disturbi depressivi descritti nel DSM 5 (2014) sono il Disturbo Depressivo Maggiore ed il Disturbo Depressivo Persistente. Il primo è caratterizzato da una durata di almeno 2 settimane e la presenza di almeno 5 sintomi depressivi. Il secondo ha invece durata di almeno 2 anni, durante i quali l’umore è depresso quasi tutti i giorni e per la maggior parte del giorno.

Depressione

Devono essere presenti 2 o più sintomi depressivi, tra i quali i più diffusi sono:


  • scarso appetito o iperfagia

  • insonnia o ipersonnia

  • scarsa energia o astenia

  • bassa autostima

  • difficoltà di concentrazione o nel prendere le decisioni

  • sentimenti di disperazione


Nella depressione il nostro corpo, che normalmente è vissuto come incorporato e libero di muoversi nel mondo, viene vissuto come solido e pesante, come un ostacolo che compromette l’interazione con l’altro e la sintonizzazione affettiva con conseguente distacco generale, ritiro e segregazione.  

Il paziente depresso percepisce un’oppressione corporea e un senso di costrizione che può concentrarsi su singole parti del corpo (inibizione psicomotoria: gesti, parole, azioni ridotte) che porta ad interrompere relazioni e legami e alle quali i pazienti sentono di non avere le risorse necessarie per farvi fronte (impotenza appresa).

Coerentemente con quanto appena espresso, emerge come sia poco proficuo che una persona demotivata e con umore depresso venga semplicemente spronata ad agire. E’ invece fondamentale che questa persona sia aiutata nella comprensione del senso della sua inerzia e delle possibilità esistenziali che avverte più proprie, affinché la motivazione all’agire sia autentica.

Una delle caratteristiche salienti della depressione, che molto spesso porta allo sviluppo della sintomatologia, è il senso di inadeguatezza.

L’inadeguatezza rende difficile all’individuo proiettarsi nel futuro riducendone così le possibilità di azione. Si ha la sensazione che il proprio tempo sia bloccato mentre il tempo del mondo va avanti. Tale inibizione del tempo interiore non permette all’individuo né di procedere verso il futuro né di lasciarsi alle spalle le esperienze passate: ciò che è accaduto rimane cosciente come una colpa o un fallimento.

Un altro pattern frequente nei pazienti depressi è costituito dall’imperativo del “dover essere felici” e dalla non accettazione delle emozioni negative. Molto spesso, invece, le emozioni negative come anche la psicopatologia non sono altro che movimenti dell’esistenza che preludono la necessità di un cambiamento; cambiamento che proprio la psicoterapia può generare proprio attraverso la consapevolezza condivisa dei propri modi di essere e di fare esperienza del mondo.

Comprensione ed accettazione sono passaggi indispensabili per il cambiamento in quanto alleggeriscono la tensione del dover agire ad ogni costo. Mentre la rassegnazione mi rende passivo e impotente, l’accettazione mi rende attivo ed efficace. Ciò non significa che l’accettazione delle emozioni negative si accompagni alla gioia, ma ci rende consapevoli della situazione così com’è vedendola come punto di partenza abbandonando aspettative irrealistiche e accogliendo obiettivi alla nostra portata.

Disturbi

alimentari

I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione consistono in modalità di assunzione di cibo che compromettono lo stato di salute fisica o il funzionamento psicosociale di una persona.

Esistono diverse forme di disturbi alimentari che sono classificate tra i disturbi mentali. Nel DSM 5 troviamo:


  • Pica, ovvero l’ingestione di sostanze prive di contenuto alimentare
  • Disturbo da ruminazione che consiste nel ripetuto rigurgito di cibo
  • Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo
  • Anoressia
  • Bulimia
  • Binge eating


Come affrontare ed uscire da un disturbo alimentare: un esempio clinico

“Posso uscire da un disturbo alimentare che dura da anni? E come?”

Per rispondere a queste domande riporto l’esempio di Anna, una giovane donna di 32 anni con un disturbo alimentare che si configurava come una bulimia nervosa così descritta: “credo di avere un problema con il cibo da sempre, ma adesso non riesco più a gestirlo… mangio tantissimo fino a sfondarmi lo stomaco, poi mi fermo a pensare a quello che sto facendo e mi sento uno schifo allora, a quel punto, vado in bagno e vomito tutto”.

Durante il primo colloquio, oltre a provare a comprendere chi fosse Anna dal suo macro contesto di vita, si cercò di ricostruire l’esordio del disturbo.

La ricostruzione del primo episodio fu più difficile del previsto in quanto Anna non ricordava con esattezza l’inizio temporale del disturbo, ricordava infatti di avere un problema con il cibo “da sempre”. Si tentò quindi di ricostruire l’ultimo episodio allo scopo di contestualizzarlo esperienza così da restituire significato alle sensazioni di disagio, confusione e perdita di controllo riportate dalla paziente. In sintesi, l’ultima abbuffata coincideva con la percezione della propria insicurezza a seguito dell’ennesima disapprovazione da parte della mamma (“lo sguardo del disgusto”). Tale disagio spinse Anna a ricercare il cibo e qui trova origine l’abbuffata. L’attenzione viene spostata sui processi di ingestione e digestione e quindi distolta dalle emozioni negative legate al giudizio ricevuto. In quel momento Anna diventa il suo “stomaco sfondato”, il corpo diventa quindi il polo di stabilità su cui percepirsi, in assenza dell’altro percepito invece come svalutante. Al termine dell’abbuffata, l’attenzione ritorna sul corpo ma, come un corpo che abita il mondo, la cui forma ritorna a diventare importante per poter entrare in relazione con l’altro. Diventa necessario quindi renderlo nuovamente piacevole e l’espulsione di quel cibo che potenzialmente, rimanendo all’interno, potrebbe rimandare un’immagine sgradevole, diventa l’unica soluzione.

La terapia proseguì attraverso l’analisi dei resoconti quotidiani, grazie alla quale emerse che spesso gli episodi bulimici originavano dal tentativo di allontanare le emozioni negative derivanti dal comportamento svalutativo o rifiutante dell’altro significativo (mamma e fidanzato). Questa consapevolezza rese necessario strutturare nuovi modi propri di gestire la negatività di alcune esperienze. L’assunzione della responsabilità del cambiamento divenne uno degli obiettivi del lavoro clinico. La comprensione del senso dei propri sintomi, grazie all’utilizzo del diario quotidiano, le consentì di darne una spiegazione identitaria. La sintomatologia bulimica, smettendo di essere vissuta come un evento estraneo a se, imprevedibile e incontrollabile, si attenuò fino a scomparire dopo qualche mese dall’inizio della terapia.

Insicurezza &

bassa autostima

L’autostima comprende: la soddisfazione di sé, l’intima consapevolezza del proprio valore e la fiducia nella propria capacità di svolgere un determinato compito.

Stimare noi stessi significa non mettere in discussione la nostra importanza e, di conseguenza, essere capaci di assumersi responsabilità nei confronti degli altri.

Le persone con scarsa autostima hanno una visione negativa del proprio valore, incondizionata, pervasiva e di lunga durata.

Chi ha bassa autostima sperimenta:


  • Una scarsa fiducia in se stesso e nel mondo
  • Una difficoltà di ascoltarsi e di individuare obiettivi realistici e coerenti con le proprie aspirazioni
  • La tendenza a dipendere dagli altri per ciò che riguarda la definizione del valore come persona e delle capacità
  • Una ricerca continua del consenso degli altri, uno scarso spirito di iniziativa ed una scarsa disponibilità a rischiare
  • La tendenza a reagire d’impulso
  • La mancanza di un progetto di vita personale
  • Una vulnerabilità ai disturbi d’ansia e uno stile comportamentale passivo


Tutti questi elementi possono contribuire al mantenimento di un basso livello di autostima e alimentare un’insicurezza di base che limita le possibilità di crescita personale, i contatti sociali e l’esposizione a nuove esperienze e possibilità.

Lavorare sulla propria autostima significa in primo luogo capire quali sono stati i momenti che ne hanno bloccato o compromesso l’adeguato sviluppo e comprendere i significati che stanno alla base dell’insicurezza.

Gli incontri individuali prevedono un primo colloquio volto a comprendere le caratteristiche dell’individuo e ad una prima definizione degli obiettivi generali. I successivi 3-4 colloqui, a cadenza settimanale, sono dedicati alla definizione degli obiettivi ed all’acquisizione degli strumenti/tecniche da applicare quotidianamente.  

Tutti i colloqui che seguono, solitamente a cadenza quindicinale, sono volti al monitoraggio degli obiettivi, all’ideazione di strategie per affrontare le difficoltà emerse e, se necessario, alla formulazione di ulteriori obiettivi.

La durata del percorso varia in base alle esigenze dei singoli individui; mediamente il numero di incontri è di 12-15.

Un percorso psicoterapico è un mezzo attraverso cui la persona può essere aiutata a capire e a comprendere sé stessa riuscendo, come fine ultimo, ad impostare un cambiamento positivo che le permetta di raggiungere la stabilità e il benessere che sta cercando.

La malattia è una mancanza di libertà, di possibilità, la “cura” non avviene cambiando le credenze ma facendo apparire nuove possibilità di azione.

Non esiste un momento giusto o sbagliato per iniziare un percorso terapeutico, né una motivazione più giusta di un’altra. Esiste ancora molto stigma sull’argomento: è tutt’ora molto diffusa l’idea che dallo psicologo ci debbano andare solo “i matti”, o i “deboli”. Sfatiamo questa falsa e arcaica concezione. Tutto ciò che ci crea una sofferenza è meritevole di aiuto e attenzione. Se hai qualche dubbio su ciò che ti sta accadendo, se sei bloccato per una qualsiasi ragione o se non conosci la ragione per la quale ti sento bloccato, non esitare a chiedere aiuto ad un esperto. Chiedere aiuto è un gesto di forza e consapevolezza.

Lo strumento primario della psicoterapia è il colloquio. Attraverso di esso l’esperienza del paziente chiede di essere detta. Ma ciò che viene detto coincide con l’esperienza? Ogni volta che raccontiamo la nostra esperienza vi è una sorta di distanziamento da essa: non la stiamo vivendo in prima persona, la stiamo raccontando, o meglio “traducendo” attraverso il linguaggio.

Il rapporto tra esperienza e racconto genera identità: ci raccontiamo in modo tale da mantenere coerente l’immagine che abbiamo di noi stessi. Quando però in questo racconto si crea un’incoerenza ecco che si genera un’incomprensione che si trasforma, a sua volta, in sofferenza. La psicopatologia, infatti, nasce nel momento in cui si viene a creare una “frattura identitaria” nel nostro racconto: ovvero la nostra esperienza non è coerente o non può essere conciliata con l’immagine che abbiamo di noi stessi, in altre parole non può essere inserita nel racconto che facciamo di noi stessi perché non ci si riconosce più con se stessi o non si sta bene con la propria esperienza.

Ci si dovrebbe sempre sentire autori e agenti della nostra esperienza, appropriarsi di quello che ci succede, sentirlo come nostro e riconoscerci nell’esperienza, sentirsi protagonista di essa e poterla integrare nella propria storia di vita, non cercare di cambiarle significato.

Ogni volta che facciamo un’esperienza la configuriamo costantemente sia alla luce del nostro passato, sia degli orizzonti d’attesa (il “che ne sarà di me”), è così che diamo continuità al senso di sé.

L’intervento dello psicoterapeuta quindi, è volto a chiarificare al paziente quei momenti esistenziali (turning points) che lo hanno “bloccato” e, insieme a lui, vagliare percorribili ed appetibili possibilità d’azione presenti. 

Un ricorrente pattern che rilevo nei pazienti, anch’esso tipico della società post moderna, è quello che definisco il “dover essere felici”. E’ assai frequente, infatti, che tristezza e malinconia non vengano per nulla accettate e siano vissute come malattia da scacciare.

 

Il costante evitamento di queste emozioni “negative”, le quali però sono legate all’esistenza e quindi inevitabili, favorisce lo sviluppo di senso di inadeguatezza, mancata accettazione di Sè e scarsa motivazione. Il lavoro dello psicoterapeuta, è spesso volto anche a favorire nell’individuo l’accettazione delle proprie caratteristiche e di tutte le emozioni che vive, indipendentemente dalla loro valenza. 

Il Modello Teorico al quale faccio riferimento è quello della Psicoterapia Cognitiva Neuropsicologica (PCN), e si basa su due principali assunti:

 

  • Interdisciplinarità e Scientificità.Basandosi sui risultati sperimentali e clinici di diverse discipline, quali psicologia, neuroscienze, filosofia, antropologia, la psichiatria ecc., la PCN consente di ottenere un quadro teorico complesso in continua evoluzione e dotato di una buona coerenza interdisciplinare.
  • Rispetto dell’Individualità.Il metodo utilizzato per la conduzione dei colloqui è quello ermeneutico – fenomenologico, focalizzato sull’esplorazione e la contestualizzazione delle esperienze di vita che il paziente, di volta in volta, porta. L’obiettivo NON è quello di piegare la soggettività ad un modello teorico di riferimento, riduzione tipica delle scienze psicologiche, né di indicare un modo di pensare, sentire e agire più adeguato. L’obiettivo è invece quello di mettere il paziente in condizione di vedere con chiarezza la propria situazione, lasciandolo libero di muoversi nel mondo seguendo i propri valori. In altre parole, diminuire la confusione interiore ed aumentare i propri gradi di libertà d’azione.

Giulia Lanaro Psicologa

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